Dal sanscrito 'Guru' è letteralmente ‘ colui che rimuove l’oscurità’, intesa come ignoranza (gu) con la luce della conoscenza (ru) ed in questo senso assume il ruolo di maestro spirituale (swami). La scelta di un insegnante yoga è sempre molto delicata, soprattutto in una pratica che coinvolge aspetti corporei, filosofici e presupposti morali importanti. Personalmente sempre cercato chi potesse risvegliare qualcosa che già era nelle mie possibilità, aiutandomi in quei salti che riescono a cambiarti profondamente, perchè non si procede mai in senso lineare. Ho sempre pensato che quindi il maestro non ti dia nulla che tu non possieda già, quasi fosse l’artefice del vero Guru, che è quel Sè profondo che è dentro di noi ed ogni tanto ha bisogno di un po’ di luce, ogni tanto di qualche bacchettata. Ogno vero maestro dice che lo yoga è un viaggio solitario, ma è così bello e utile trovare chi ti accompagna, facendoti scoprire la bellezza e la profondità del viaggio. Gurur Brahma, Gurur Visnu, Gurur devo Maheshwarah, Guruh saksat, parabrahma, tasmai sri Gurave namah Il Guru è Brahma (il creatore), segna anche l’inizio della nostra vita , Il Guru è Visnu (il preservatore), che è anche la durata stessa della nostra vita, Il Guru è Siva (Maheshwara, il più elevato degli dei) (Il dissolvitore), che è anche la fine della nostra vita. Il Guru è sakstat , oltre lo sguardo (guru interiore) ed anche chiaro, visibile (nella vita quotidiana), Il Guru è ParaBrahman, ovvero oltre gli dei stessi, A tale Sri (supremo) Guru io mi inchino Attraverso la pratica dello yoga impariamo ad ascoltare il nostro io profondo, o perlomeno ci poniamo nella condizione di ascolto. Se il suono è debole, per essere ascoltato necessita di silenzio ed attenzione.
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Un approccio semplicistico alla psicologia applicata allo yoga ci dice semplicemente che non esiste una psicologia in tale contesto. Una possibile spiegazione è che quello che per la psicologia occidentale è l’obiettivo massimo per la visione yogica è solo un passaggio iniziale e quindi non così enfatizzato e nemmeno particolarmente strutturato.
Per la visione della nostra psicologia classica l’obiettivo è portare al conscio i nostri traumi e le nostre problematiche psicologiche e qui bene o male si chiude il cerchio: una volta conosciuto il significato dei sintomi inconsci il nostro problema psicologico dovrebbe dissolversi. Nella realtà delle cose esistono mille rivoli diversi e fronteggiare i nostri mostri può essere ancora più traumatico, difficile e forse anche destabilizzante,che viverne le conseguenze in una vita complicata. Da qui la complessità, lunghezza e difficolatà nel gestire l’analisi psicanalitica, fatta di anni di lavoro, insuccessi e difficilmente risoluzioni definitive. Fra queste difficoltà una delle più sottii e meno codificate è l’identificazione automatica e profondissima con il problema/trauma. Ognuno di noi subisce infatti l’automatismo del principio di identificazione col proprio status psicologico negativo che vorebbe risolvere. Io sono depresso, io sono traumatizzato, io sono ... curarsi significherebbe eliminare parte di noi stessi, de-identificarci, psicologicamente morire e non essere più nulla: cosa ci può essere di più difficile da affrontare della nostra eliminazione? Ed è qui che entra in gioco l’approccio yogico, che fa proprio della de-identificazione con i falsi ‘io’e della ricerca del proprio sè profondo il cuore della propria strada. Fin dall’inizio la pratica yoga ci porta all’osservazione dall’esterno del nostro corpo e della nostra mente per dis – identificarci con essi, proponendoci quindi che siamo altro, qualcosa di più spirituale, profondo e nascosto da riscoprire. Questa riscoperta ha come strumento principale la meditazione, a cui le pratiche iniziali sono propedeutiche, come ad esempio le asana (posture del corpo), il pranayama (controllo del respiro) ed i krya (le pulizie del corpo). Ma scendendo verso il nostro sè, dopo avere incontrato e superato il pensiero automatico della mente, inevitabilmente si fronteggiano i propri problemi psicologici, è un livello inevitabile che ci separa da quel sè così nascosto. L’accesso e l’emersione dell’inconscio sono quindi parte integrante del percorso yogico, come lo sono i principi dell’osservazione e della conseguente de-identificazione. Passare dal sono depresso al ‘ho la depressione’ già mi mi separa dal mio problema, ed è spesso difficile e traumatico liberarsi dalla malattia che ci può essere tanto utile: ci dice chi siamo, ci porta una serie di sentimenti di aiuto da noi stessi e dagli altri, riempe un vuoto di senso e di significati. Ma il lavoro di disidentificazione ci porta ad una lettura diversa ed infine a separarcene, ed una volta che questa zavorra ci è estranea possiamo tagliarne il cordone ombelicale e, finalmente, separarcene. Questo ci permetterà finalmente di tuffarci e poterci immergere in quel mare dove il nostro io è nascosto senza doverci muovere in passaggi melmosi e bui che ci impediscono di muoverci liberamente. E’ qui quasi divertente come termini quale dis-identificazione (dai nostri traumi psicologici) ed individuazione (come ricerca junghiana del proprio sè profondo), pur essendo parole opposte siano diverse sfacettature di un percorso comune, quello verso la liberazione. Carlo Zanella Questo slogan, che completo è '(Ashtanga) Yoga is 99% practice 1% theory, practice and all i coming' è estremamente attraente per i neofiti (like me of course) e viene generalmente interpretato come 'mettiti sul tappetino e, appunto, pratica', il tutto spesso accompagnato da immagini quantomai Fitness di pose tanto difficili quanto attraenti per il loro senso di forza, armonia e bellezza.
Questa impostazione mi ha sempre lasciato come se mancasse un pezzo per almeno due motivi: il primo è che limita la pratica all'aspetto fisico, che nel corpus generale dello Yoga (ashtanga - astanga = otto rami dello yogasutra, dove la parte fisica - asana) ha un aspetto non preminente e, soprattutto, limita la pratica al momento del tappetino. Ma è lo stesso Sharath Jois a spiegare: cito testualmente: 'Ashtanga is not a style of yoga (e già qui partono le ola). Ashtanga yoga is a method. I’ve said this many times, but students need to be reminded of the fundamentals of Ashtanga yoga: the yamas and niyamas. They are the key ingredients to establishing and practicing yoga. It’s like making a dish from a recipe: You need these ingredients or else it won’t work, and you won’t be doing yoga.' Tutta la teoria dello yoga potrebbe in effetti chiudersi qui. L'Ashtanga deve quindi comprendere tutti gli otto rami a partire da Yama e Nyama (codici morali) che si dovrebbero praticare sempre, sul tappetino poi asana + pranayama, prathyara, dharana e dhyana che dovrebbero far parte sempre della pratica 'non solo fisica' e per il samadhi infine ci stiamo attrezzando. Quindi quando pratico Ashtanga ? Sempre. Interpreto infine a modo mio quell'1% di teoria: molto meglio praticare (da yama e nyama in poi) che leggere, razionalizzare e specularci. 'Mantieni il calore, tieni tappato il vaso; trova il piacere nella ripetizione'. cit. J. Hillman da 'Psicologia Alchemica'.
Questa frase che parla di alchimia richiama in modo fortissimo la pratica dell'Ashtanga Yoga: 'mantieni il calore' è lo scopo dei vinyasa che vengono fatti fra le diverse posture/sequenze, 'tieni tappato il vaso' (che siamo noi, il contenitore trasformativo) è lo scopo dei bandha e 'trova il piacere nella ripetizione' è la base del metodo: pochissime serie sempre uguali a loro stesse ma che implicano un lavoro trasformativo enorme. Ecco, il lavoro trasformativo, evidente come obiettivo e come metodo nell'Ashtanga nell'alchimia è evidente solo come obiettivo, dato che il metodo è invece volutamente nascosto. Similitudini e distanze sono anche evidenti nel percorso pre e post junghiano (Hillman è forse il massimo esponente post-junghiano), che inizialmente si avvicina a quello Yogico, vedi la conferenza sulla kundalini, per poi spiegare in poche pagine perchè per l'occidentale lo yoga è dannoso e da evitare, in 'saggezza orientale', per terminare la sua ricerca, di vita più che professionale, votandosi appunto all'alchimia. Mi viene in mente che forse cambiano (o forse meglio, si nascondono) i segni ed i modi, ma i significati siano gli stessi. Una domanda che sento spesso è: 'pratico Yoga da anni e riesco ad essere felice solo quando sono sul tappetino a praticare, il resto della vita è attesa e vuoto'.
Ma lo yoga crea questo vuoto, lo riempe o forse può farcelo superare? Ci sono perplessità come questa che mi seguono per settimane, alle volte mesi senza trovare risposte, cercando di aggrapparsi di volta in volta a suggerimenti ed alle suggestioni che incrocio quotidianamente. E' nata da qualche scambio di parole con altri praticanti di Yoga e verte su quel senso di vuoto che ci accompagna quando, a fine pratica arrotoliamo il tappetino e lo rimettiamo in borsa, sentendo che è come se mettessimo nella sacca anche gran parte del valore della nostra vita, che può ritrovarsi solo quando srotoleremo il tappetino per la prossima pratica. La risposta mi è arrivata stamattina in forma di un pensiero del solito Jung : "Giunge al luogo dell´anima chi distoglie il proprio desiderio dalle cose esteriori. Se non la trova, viene sopraffatto dall´orrore del vuoto. E, agitando più volte il suo flagello, l´angoscia lo spronerà a una ricerca disperata e a una cieca brama delle cose vacue di questo mondo. ... Correrà dietro a ogni cosa, se ne impadronirà, ma non ritroverà la sua anima, perché solo dentro di sé la potrebbe trovare. " (Carl Gustav Jung, Il libro rosso). Questo percorso di ricerca introspettiva è comune alla pratica dello yoga, che ci porta quindi a vivere quella ricerca di interiorità di cui parla Jung (individuazione, cit.) e, se ci ritroviamo, allora riusciamo a riempire con questa nuova consapevolezza anche la quotidianità, che si svuota allo stesso tempo dei vecchi appagamenti; se invece quella interiorità riusciamo a sentirla solo quando pratichiamo senza riuscire ad afferrarla e farla nostra sempre, l'effetto è che la quotidianità si svuota soltanto, senza altra possibilità di ritrovare vicinanze con il nostro sè se non attraverso la pratica. Come, quando, dove e come afferrare il nostrò sè, è argomento di secoli di speculazioni filosofiche e meditazioni spirituali ma si, certo lo yoga può essere una strada per arrivarci e quel tepore all'anima che nasce dalla pratica ci fa sentire quanto ci stiamo avvicinando, afferrarla e portarla fuori dal tappetino è il nostro lavoro. |
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